Carceri, la riforma che non può attendere di Aldo Masullo

Il 3 marzo si avvicina a grandi passi. Entro questa data, che segna la fine della legislatura, il Governo dovrebbe definitivamente approvare i decreti delegatigli dal Parlamento. 
Come quello dell'attuazione della legge di riforma dell'ordinamento penitenziario. Se ciò non avvenisse, la legge stessa decadrebbe. 
Gli effetti sarebbero molto gravi. Il Governo resterebbe umiliato per la sua incapacità, il Parlamento beffato avendo invano espresso la «volontà popolare», lo Stato esposto alle nuove condanne dei giudici comunitari per le sistematiche violazioni dei diritti umani nelle carceri, il lungo e serio lavoro di molte persone cancellato. 
Ma il peggio sarebbe il colpo morale inferto al mondo carcerario in ogni sua parte, dai detenuti a tutti coloro che, a vario titolo operandovi, ne condividono le tribolazioni. 
Dinanzi a questa deprecabile prospettiva la società italiana non presenta che due posizioni. Da una parte occupa la scena un pieno d'indifferenza, quasi si volesse seppellire il problema sotto la completa assenza d'informazione. Dall'altra parte invece vive non una preoccupata e inerte attesa, ma una forte e pacifica mobilitazione della popolazione carceraria, che ancora una volta mostra di saper assumere un ruolo di soggetto civile: essa non protesta ma esige il rispetto dei diritti ed esercita una funzione di pedagogia sociale. 
Questo inaudito corso della vita carceraria è l'esito di una lunga marcia del radicalismo di Marco Pannella che, pur estremamente minoritario, è riuscito a introdurre nella nostra pigra società politica il fermento di uno spirito di lotta non per il potere, ma per l'affermazione dei diritti di libertà dell'individuo e per un più rigoroso Stato democratico di diritto. 
Oggi questo fermento liberale sembra trovare il più propizio campo di sviluppo nel dolente mondo carcerario, cioè paradossalmente nel mondo della massima compressione legale della libertà, tra le maglie di un sistema che, nonostante l'evoluzione della cultura e il chiaro fondamento costituzionale, è ancora impigliato in vecchie pratiche d'ispirazione sterilmente punitiva. 
L'odierna mobilitazione non è la solita «rondine solitaria che non fa primavera», ma un'azione consolidatasi dopo una prima prova esemplare. Due anni fa, in parallelo con il «giubileo della misericordia», proclamato da Papa Francesco, si svolse la marcia per reclamare la riforma carceraria. Molte migliaia di detenuti vollero parteciparvi idealmente con il loro digiuno, proclamato non, si badi bene, in segno di protesta, ma a «sostegno» morale delle ragioni di quella iniziativa. Sottolineai allora su queste colonne l'importanza del salto culturale compiuto da una larga parte della popolazione carceraria. Lasciandosi alle spalle la mortificazione del proprio stato e lo scoraggiato abbandono alla passività, per associarsi invece attivamente nel digiuno collettivo, molti detenuti assunsero, insieme con una più chiara coscienza degli errori commessi e delle ingiustizie talvolta subite, la piena consapevolezza dei loro insopprimibili diritti di uomini. 
Questa straordinaria maturazione civile di persone, la cui condizione sembrerebbe la meno adatta a favorirla, fu il risultato dell'opera assidua, ostinata, del gruppo di punta dei pannelliani storici, in particolare dell'intelligente e infaticabile impegno di Rita Bernardini. È comprensibile come ora questo gruppo si stia attivando al massimo perché la riforma del nostro sistema penitenziario, sul punto di tagliare il traguardo, non venga fatta fallire per l'intempestività operativa del Governo. 
Ho definito «ostinata» l'azione radicale. Non a caso. Anche questa volta l'iniziativa politica viene proclamata col nome di «satyagraha», parola che viene gandhianamente usata per indicare un atto di «resistenza passiva», non violenta, ad una ingiusta pretesa del Potere. La parola più letteralmente significa «insistenza per la verità». Certo non si tratta di verità religiosa o metafisica e neppure scientifica, ma di verità politica, intesa non come ideologia dominante o ideale di un movimento oppositivo o visione solitaria di un grande statista, ma della piena evidenza di un diritto individuale, non confliggente, anzi solidale con gli altri diritti che spettano senza eccezione a tutti i cittadini della nazione umana. Per il riconoscimento di un tale diritto nessuna «insistenza» è troppa, nessuna ostinazione è eccessiva. Tutti gli scioperi della fame di Rita Bernardini e dei suoi compagni radicali, e delle migliaia di detenuti che si uniscono a loro senza esitazione, con l'entusiasmo del sentirsi, pur carcerati, di nuovo dentro la vita sociale attiva, rappresentano il bellissimo fiore politico dell`«insistenza per la verità». 
I grandi mezzi d'informazione, dinanzi a questo sorprendente protagonismo civile di larga parte della popolazione carceraria, che funziona come opera di pedagogia politica ed esercizio di democrazia attiva, stanno ammutoliti. Fanno eccezione solo il piccolo ma combattivo quotidiano «Il dubbio» e naturalmente l'inarrestabile «Radio radicale». Per il resto giornali, radio, televisione, web, oltre che di solita cronaca, sempre più nera, e di non meno solito chiacchiericcio politico, rigurgitano in queste settimane di mirabolanti e stucchevoli promesse degli esponenti di partiti e fazioni, mobilitati per la gara elettorale. 
Di uno dei pochi pezzi forti della stagione riformatrice di questi ultimi anni, e del suo destino sospeso a un filo, nel gran vociare della piazza non si fa parola. È come se fosse in atto una ferrea congiura del silenzio. Che i decreti delegati non siano completi, e ancora ne manchino, come quelli sul lavoro e sull'affettività, decisivi per il risultato civile della riforma, e che perfino il primo decreto, finalmente presentato per il necessario parere alla Commissione parlamentare competente, corra il rischio di cadere nell'inesorabile tagliola di fine legislatura, sembra proprio che non importi a nessuno, salvo che ai radicali, alle migliaia di detenuti e a poche altre persone culturalmente coinvolte. Eppure, con le sue imperfezioni e i suoi limiti, inevitabili in qualsiasi modello astratto da mettere alla prova della pratica, la riforma costituisce il richiamo oggi ineludibile a porre al centro del sistema penitenziario l'individuo con la sua dignità di uomo comunque «libero». Se la legge cadesse, sull'immagine dell'Italia resterebbe un disonorevole segno di arretratezza civile.

Foto rita bernardini